Si rincorrono per entrare, di diritto, nel magico
cono di luce dell’attenzione. Si affollano sotto la potente sorgente luminosa
del nostro “occhio di bue”, come accade in un qualsiasi grande o piccolo
teatro, aristocratico o popolare.
Si impongono disordinatamente, prepotenti e
sgomitanti, sgualciti od eleganti, come consumati attori al vaglio di un poco
neutrale giudice, regista o spettatore, per trasmettere o risvegliare
un’emozione antica.
Anche se a volte, mentono, esagerano o si fanno
interpretare come i sogni: possono cambiare una forma o un colore, modificare una
prospettiva o esaltare l’intensità di un gusto o di un piacere. O nascondersi
in ambienti irreali e sconosciuti, vestendo panni assurdi, rubati alla fantasia
dell’utopia o del desiderio.
Ci sono porte nella nostra vita che non si chiudono mai o mai del
tutto.
Come quella dei ricordi e dei sospiri che affaccia su quella più grande
dell’esperienza. E’ quella che non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo mai
cancellare.
L’infanzia, un capriccio, un gioco, un dono, una scoperta o una paura
risolta in braccio a un genitore. Un bacio della mamma, un premio o il piatto
preferito. La scuola, i compagni, gli esami, la maturità, la festa di laurea. I
primi amori e le tante passioni, le esperienze di vita e di lavoro, la nascita
di un figlio, le avventure, i sogni e le speranze. Le gioie, le ansie e
l’incertezza del futuro.
Noi siamo anche la nostra memoria selettiva perché la vita sarebbe
impossibile se ricordassimo tutto e sempre.
Non tutti i ricordi sono affascinanti e positivi, anzi, al contrario:
quelli più brutti o che ci hanno procurato dolore e sofferenza tendiamo a rimuoverli
freudianamente, a dimenticarli, ad accantonarli in fondo al quel cassetto, per
non averli a vista.
Anche perché, se il ricordo del piacere non è più piacere, il ricordo
del dolore è ancora dolore. Tutto sta a scegliere, nei percorsi della mente e
delle censure del Super Io, o attraverso il filtro della casualità o della
sensibilità, quello che si deve o ci piace dimenticare.
Ogni ricordo è comunque un luogo di incontro, perché ci appartiene e non
ci separa definitivamente dal nostro passato, come i sogni non ci separano dal
futuro.
Sono e restano tracce della nostra esistenza, anche nella percezione di
chi ci ha amato o conosciuto, come tappe di un viaggio che tutti facciamo, da
fermi, e che, spesso, in alcune stazioni li trasforma in nostalgia.
Ma sono anche un confronto costante con la nostra solitudine e aiutano
a comprendere noi stessi: tutti ne abbiamo bisogno.
E’ proprio così che la Storia universale si fa
individuale.
Gli anni della nostra storia personale sono come i
secoli della Storia: belli, epici, tristi, felici, tempestosi, tumultuosi,
avventurosi. E’ come se quei momenti che abbiamo
fabbricato, accumulato e messo da parte, fossero la
memoria di un mondo, assai più piccolo e comune di quanto immaginiamo. I suoi grandi
avvenimenti, gli stravolgimenti, le crisi, le conquiste, gli eventi collettivi
corrispondono, in debita proporzione, ai nostri affanni, alle nostre vittorie,
ai nostri turbamenti.
Sono sempre lì, quei ricordi fragili, struggenti e
delicati e, soprattutto nel silenzio della notte, si affacciano su quel
palchetto personale, come se pretendessero di rivivere una nuova esistenza e
guadagnarsi la popolarità.
C’è da chiedersi: siamo noi che li cerchiamo e li
inseguiamo, per conforto o per rifugio, o sono loro che si ripropongono con
discrezione in autonomia?
Non saprei, ma la loro forza evocativa è tanta
perché attinge a una realtà complessa e variegata, che nel tempo si è
oggettivizzata.
Soprattutto, quando a una certa età si prende atto o
ci si rende conto, anche su suggerimento altrui, che quel resta da vivere è
assai meno di ciò che si è vissuto. Volendo quantificare, per amor di
pragmatismo, un 10/20%, nella migliore delle ipotesi.
Allora, fingiamo di non saperlo; istintivamente, lo
dimentichiamo e andiamo a scalare, con ogni possibile lentezza, tali scoraggianti
percentuali.
Qualcuno, mentendo anche a se stesso, sceglie di
rifugiarsi nella sindrome di Peter Pan o appende nella sua stanza il ritratto
di Dorian Gray: calcetto, palestra, ballo, estetista, abbigliamento giovane per
vecchi galli e cotonate panterone. O si avventura, tra silicone e punturine, in
patetici tentativi di restauro conservativo, a dispetto della biologia e della
carta d’identità, affogando nella ridicola ricerca dell’elisir di giovinezza.
Ma “tempus
fugit”, inesorabilmente, e si muove in una sola direzione, mentre i
ricordi e le illusioni in quella opposta.
Quasi sempre, dicevo, il ricordo nasce o si estrae dalla nostalgia del passato
e, a volte, si esalta e si mitizza: “mi
ritorni in mente, bella come sei, forse ancor di più, dolce come mai, come non
sei tu…” (L. Battisti)
Se non è scissa dal resto della vita precedente, ma è la continuazione
dell’adolescenza, della giovinezza e della maturità (Norberto Bobbio), l’età
della vecchiaia – che brutta parolaccia - coincide con il mondo della memoria:
alla fine tu sei quello che hai pensato, amato, compiuto. E quello che di ciò -
al di là di simboli e leggende - rimane negli occhi e nella mente.
E’ una tua ricchezza, la tua preziosa, privata antologia.
Di quegli attimi che hai conservato e non hai lasciato cancellare sei
il solo, unico padrone e fedelissimo custode.
15 settembre 2015 (Alfredo Laurano)
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