In un recente articolo (Variegata umanità, pubblicato
il 10/8), ho parlato di Britannico, assiduo e simpatico imprenditore del
marmo, che ogni mattina, al Bar Centrale, sfama
francescanamente i piccioni, con pezzetti
di brioche, e discute bonariamente con tutti e di tutti è amico. Oggi, mi corre
l'obbligo, come si dice nella migliore tradizione lessicale, di raccontare la
singolare origine del suo non comune e poco diffuso nome, di cui solo adesso
son venuto a conoscenza.
Nel 1917, in piena prima guerra mondiale,
il padre Filippo si trovava sul fronte orientale, in prima linea, con un
contingente di alleati inglesi , inviati per rinforzo e di supporto. Superando
in qualche modo le incomprensioni della lingua, strinse amicizia con un soldato
inglese. Un sentimento sempre più profondo, cresciuto in fretta e cementato
dalla reciproca paura e dalla precarietà delle loro vite in bilico. Consapevoli
di tale condizione, forse per farsi
coraggio, per nutrire un qualche sprazzo di speranza o per esorcizzare
l’ansia ed i timori, un giorno, in trincea, tra uno sparo e l'altro, si
scambiarono una solenne promessa: chi dei due fosse sopravvissuto, in memoria e
per ricordo del compagno, avrebbe chiamato il primo figlio col nome del Paese
del caduto amico.
Una
granata uccise il soldato inglese e qualche tempo dopo, in suo onore e in
ossequio al sacro giuramento, nacque
Britannico (nel 1928, sotto il fascismo) che – nomen omen – crebbe giustamente
antifascista.
E’ una storia vera di guerra e d’amicizia, una
pagina di vita, di persone e di valori, che oggi appare forse romanzata e assai
lontana dall’attualità. Ma non è tra quelle del libro Cuore del De Amicis. Lo
stesso protagonista, Filippo, il soldato superstite, padre di Britannico – che
all’anagrafe, per ignoranza, fu pure
scritto con due “t” - finché fu in vita era restio a raccontarla, per
riservatezza o per eccesso di pudore.
Nelle persone di quel tempo, nei nostri
avi, c’era, infatti, accanto alla
dignità, all’onestà e alla parola data,
un senso del riserbo e della pudicizia, del tutto spontaneo e naturale, a noi del tutto
sconosciuto.
A me, quest’aneddoto ha colpito e l’ho
voluto riferire proprio come testimonianza di umanità e per restituire
legittimità e decoro a quei sentimenti che, oggi, qualcuno tende a
ridicolizzare, con sufficienza e commiserazione, ridacchiando sotto i baffi di
una moderna supponenza.
27 agosto 2013 (Alfredo Laurano)
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