Sta finendo un anno drammatico, almeno secondo il calendario.
Un anno che ha unito genti e popoli di tutta la Terra, non nella pace e nella gioia, ma nel dolore, nella paura e nella sofferenza.
Un anno di pane e pandemia,
infausto e maledetto, arrivato all’improvviso, inaspettatamente, senza essere
previsto e senza preavvisi.
Che ci ha colto impreparati
nell’era delle sicurezze, della scienza e della super tecnologia, che tutto,
sulla carta, spiegano, sciolgono e risolvono.
Che ci ha aggrediti e cambiati
dentro, che ha devastato l’idea di libertà, che ci ha privato della socialità e
degli affetti.
Che ha alterato i nostri
equilibri, le nostre scelte, le nostre convinzioni, le nostre abitudini, le
nostre certezze.
Che ci ha impedito di
salutarci, di abbracciarci e frequentarci, di stringerci e toccarci, come
fossero tutti lebbrosi o appestati in un infetto, gigantesco lazzaretto.
Che ci ha allontanato dagli
altri, dagli amici e dai parenti più cari, quando non ce li ha portati via.
Che ha seminato morte e
distruzione, come una guerra orrenda, diffusa nel pianeta.
L’unico vero augurio, che
tutto il mondo non può non fare, è quello che il maledetto virus venga
sconfitto, non solo dal vaccino, e che si possa cancellare la distanza, tornare
a baciarsi e ad assembrarci, senza mascherine - se
non quelle rituali e inevitabili pirandelliane - e senza nemmeno lavarci le
mani sporche, cento volte al giorno.
31 dicembre 2020 (Alfredo Laurano)
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