Eravamo per natura animali politici, legati ad una vita
comunitaria con gli altri e organizzati nella tipica forma sociale che è la
Polis, ultimo gradino dei processi aggregativi: prima c’è il villaggio e prima
ancora la famiglia, nucleo naturale di socialità, il cui culmine è appunto
nella Polis, quel particolare tipo di città-stato, abitato da una comunità di
individui uniti da legami etnici, religiosi, economici, che fu proprio
dell’organizzazione greca in età classica.
L’uomo tende quindi ad aggregarsi in modo spontaneo. E non
solo per interesse, per esigenze materiali o perché stare insieme è
vantaggioso, ma perché è un’attitudine più genetica che ambientale, perché
nessuno può fare tutto bene e da solo: è meglio che ciascuno si specializzi in
un’attività, in un ruolo.
Lo sosteneva, a ragione, Aristotele: anche se l’uomo avesse
tutto ciò di cui ha bisogno e fosse autonomo, tenderebbe lo stesso a vivere
insieme ad altri. Vi è una spontanea voglia di stare insieme, di socializzare,
di interagire.
Almeno, così era fino a pochi mesi fa.
Ora, uno stramaledetto Virus ha demolito anche questa
predisposizione, questa tendenza, questo modo di vivere e di essere.
Ci ha modificato dentro e nel pensiero. Ci ha riportato ad
una sorta di riedizione dello stato selvaggio di “Homo homini lupus”, di
hobbesiana e già plautina memoria. Anche se, in verità, nello stato di natura,
non regolato da alcuna legge, tale condizione istintuale di egoismo,
sopraffazione e sopravvivenza non è mai sparita dal contesto umano, ma solo
sopita, rimossa o sublimata in altre forme.
Comunque, filosofia e antropologia a parte, sono già due
mesi che non lo facciamo.
Abbiamo dovuto dimenticare, o, meglio, siamo stati
costretti a farlo, com’era bello incontrarsi, stringersi la mano, abbracciarci,
baciarci, salutarci con affetto. Stare vicini, stare insieme al bar, a pranzo,
a cena o in trattoria. Scambiarsi un bocconcino, un pezzo di pizza, di focaccia
o di crostata, fra le dita (come faranno in India dove mangiano solo con le
mani?). O giocare a carte, far chiacchiere e salotto, uscire per lo shopping,
andare al cinema, a teatro, ai concerti e nei musei.
E’ necessario e obbligatorio mantenere le distanze e
coprirsi con le mascherine, anche quando in qualche modo si ripartirà, magari
fra pannelli in plexiglas, percorsi e numeri chiusi.
Ormai vediamo gli altri come nuovi possibili nemici, come
portatori asintomatici di virus, come potenziali untori o killer inconsapevoli,
che possono infettarci quando andiamo a far la spesa o in farmacia, o quando ci
fanno le consegne a casa. In strada ci spostiamo, ci allontaniamo, cambiamo
marciapiede. Reciprocamente, istintivamente.
Sono poche settimane che è così, ma sembrano anni. La
normalità, come era intesa nella più recente quotidianità, sembra così lontana
e perduta nel tempo.
Il Covid-19 ha stravolto le nostre abitudini, ha
drasticamente modificato le nostre priorità e anche la nostra percezione della
realtà.
Il mondo, visto dalla finestra di casa, dal monitor del PC
o raccontato da stampa e TV ha un aspetto diverso, inquietante, fittizio e
anomalo. A volte, tutto sembra finto perché paradossale, come in un reality,
una specie di Truman Show al contrario, un incubo perverso, dove appare difficile
distinguere la sottile linea tra realtà e finzione,
Questa tragica vicenda segnerà una generazione in modo
irreversibile, come è accaduto per i nostri nonni o genitori con la guerra.
Nulla sarà come prima, anche per noi diversamente giovani,
se non incontriamo il mostro.
21 aprile 2020 (Alfredo Laurano)
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