In Italia, a ieri, 153mila contagiati, ventimila morti. Nel mondo, unmilioneottocentomila contagiati, 109mila morti. Ma tutti sappiamo che questi numeri ufficiali non sono reali e veritieri: vanno moltiplicati almeno per dieci, dicono gli esperti.
Però, continuiamo a dire e a dirci: “Tutto Andrà Bene, Ce
la faremo, Vinceremo”: come ai tempi del duce si scriveva sulle case o come si
canta nella celebre romanza “Nessun dorma” della Turandot di Puccini.
E lo diciamo senza crederci, perché abbiamo bisogno di
speranza, di fiducia e di miracoli, di slogan motivazionali, di incoraggiamento
reciproco, di voglia matta di tornare a una quasi impossibile “normalità”.
E questa speranza l’abbiamo disegnata su lenzuola, bandiere
e cartoni. L’abbiamo appesa a finestre e balconi, fra pianti, musica e canzoni.
L’abbiamo propagata in messaggi della disperazione, da Nord a Sud, su porte e
muri delle città.
Sappiamo tutti che nulla sarà più come prima, né, tanto
meno, meglio di prima, come, retoricamente, qualcuno vuol farci ritenere o
pretende di convincerci, trascinandoci nella pia illusione.
Da un giorno all’altro le nostre vite sono cambiate: la
quotidianità, gli spazi, le abitudini, i rapporti, gli orari, le scelte, le
priorità. La situazione è degenerata sotto i nostri occhi, ora dopo ora, e già
ci ha trasformato.
Ci sentiamo in pericolo e minacciati, quando usciamo,
lavoriamo o andiamo a comprare il cibo o in farmacia. Viviamo tutti una specie
di vita sospesa, con una spada di Damocle sulla testa, legata solo ad un esile
crine di cavallo. Su quale testa si romperà quel filo, a chi toccherà oggi?
Abbiamo capito che le cose non si risolveranno presto, che
c’è bisogno di compattarsi, di essere solidali, di affrontare il presente,
minuto per minuto, con serietà e responsabilità.
Ma, accanto al pessimismo della
ragione, c’è bisogno anche di un po’ di ottimismo della volontà, di tirar fuori
la forza residua e l’orgoglio di combattere questo mostro invisibile e spietato. E allora, come nelle favole, ripetiamo ancora: “Tutto andrà
bene”, perché è l’unico conforto che possiamo dare, perché abbiamo un cuore
grande e ferito, da cui sanguina la paura e l’incertezza. E perché, a Pasqua, è l’unico augurio che possiamo fare. Almeno fino a quando qualcuno o qualcosa staccherà la spada
dal soffitto.
12 aprile 2020 (Alfredo Laurano)
12 aprile 2020 (Alfredo Laurano)
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