Forse il significato di questo titolo un
po’ criptico ed enigmatico sta proprio lì, su quella scritta che si legge sulla
maglietta rossa di un orsacchiotto malridotto, piantato sulla croce in un
cimitero di bambini, un’immagine che strugge l’anima di chi guarda: non essere
cattivo verso te e verso gli altri, tendi al bene, al bello: è l’unica
salvezza.
Un monito, un invito, un’esortazione, un
messaggio di speranza?
“E
’quello che significa per me, l'abbiamo definito l'undicesimo comandamento”, dice Luca Marinelli, il Cesare di questo bel film dello
scomparso Caligari, che ha concluso pochi mesi fa la sua vita, proprio con le
ultime riprese di quest’opera.
Sono storie epiche e drammatiche di
borgatari, di drogati, transessuali, barboni e papponi - come nei precedenti “Amore
tossico” e “L'odore della notte” - disegnate con un'intensità espressiva che
alterna rabbia, malinconia, ironia,
euforia, determinazione, tristezza, dolore e momenti d gioia e tenerezza.
Sentimenti e comportamenti contraddittori
e discordanti, spesso antitetici e alternativi: l’amore per la nipotina orfana e
il valore dell’amicizia, da una parte, e l’inevitabile malvagità e la quasi
obbligatoria prepotenza, quale effetto della frustrazione e del rancore sociale,
a lungo subito, dall’altra. Tutto coesiste in una rappresentazione alienata e schizofrenica
di un’esistenza assai simile, o conseguente, a quella delle allucinazioni
provocate dalla cocaina o delle pasticche
E’ un tentativo di rivincita e di riscatto
socio-affettivo, al limite del paradosso, sostenuto nel film da una filosofia
narrativa, tutta protesa a descrivere emozioni forti, autentiche e selvagge, attraverso
il linguaggio crudo di borgata - uno sconvolgente mix di gergo romanesco, gergo
della droga e della malavita - e una fotografia che dipinge icasticamente oltre
ogni verità.
In una degradata Ostia di vent’anni fa - e
a vent’anni dalla morte di Pasolini, ritrovato all’Idroscalo, nel 1975 - cercano
di sopravvivere, di “svoltare la giornata”
con qualsiasi mezzo, una serie di personaggi che sembrano usciti direttamente
dalla stessa penna di Accattone.
Il loro quotidiano è fatto di piccoli furti, di spaccio e notti brave, che spesso finiscono in risse e pestaggi.
Il loro quotidiano è fatto di piccoli furti, di spaccio e notti brave, che spesso finiscono in risse e pestaggi.
L’incipit di “Non essere cattivo” è
brutale e dirompente e può anche dare un certo fastidio, per i suoni fragorosi
e per lo sguaiato turpiloquio, ma introduce con ruvida immediatezza ai toni, ai
colori, ai contorni e ai significati di una misera realtà, difficile da capire
per chi l’osserva da lontano (al cinema, in TV, nei libri o sui giornali), ma
assai più da accettare per chi la subisce e la vive tutti i giorni.
Anche i due amici fraterni, Vittorio (Alessandro
Borghi) e Cesare (Luca Marinelli) non hanno un lavoro, né sono interessati a
trovarlo, e vivono il presente tra eccessi, droga e dissolutezza, senza
interrogarsi sul futuro.
Il loro mondo è fatto di extasy, cocaina,
musica techno, donne sottomesse - secondo un’etica sessista di borgata - videopoker,
furti e spaccio: uno “sballo” persistente come antidoto al disagio, allo
squallore e alla fatica di vivere.
Fino a quando per Vittorio si apre uno
spiraglio di salvezza, grazie all’amore per una ragazza-madre, Linda (Roberta Mattei).
Decide di cambiare vita, di non drogarsi più e di iniziare a lavorare
onestamente come manovale.
Vorrebbe trascinare in questa redenzione
anche l’amico Cesare, innamoratosi a sua volta di Viviana (Silvia D’Amico,
quasi irriconoscibile nella difficile parte), ma le strade dei due sono
destinate a dividersi e il lieto fine non è così scontato.
Una
storia maledetta di esclusi e “senza parte” in cui si profila, però, al di là
del vizio e della precarietà, l’idea della speranza e del cambiamento, oltre il
castigo e la condanna del reietto al buio dell’emarginazione.
Sullo
schermo, impudiche immagini di desolazione, di solitudine e di tristezza umana
ricreano atmosfere di una periferia non molto diversa da quella pasoliniana,
con gli stessi peccati e gli stessi vizi strutturali.
Quel luogo malfamato che il grande friulano aveva visto come laboratorio di genuinità, di corporeità, di passione, contro tutto ciò che è finto o che può essere artefatto. È nella periferia che gli individui, incalzati dai bisogni primari, infrangono le regole, lottano nella vita e portano a galla tutte le contraddizioni e le ingiustizie di una società borghese, egoista e altrettanto violenta, che emargina i non allineati, che non distribuisce ricchezze e colma con l’odio razziale gli squilibri.
Quel luogo malfamato che il grande friulano aveva visto come laboratorio di genuinità, di corporeità, di passione, contro tutto ciò che è finto o che può essere artefatto. È nella periferia che gli individui, incalzati dai bisogni primari, infrangono le regole, lottano nella vita e portano a galla tutte le contraddizioni e le ingiustizie di una società borghese, egoista e altrettanto violenta, che emargina i non allineati, che non distribuisce ricchezze e colma con l’odio razziale gli squilibri.
“Non essere cattivo”, magistralmente
interpretato dai due straordinari protagonisti, ma anche dalle due fantastiche
giovani attrici e da tutti gli altri attori, è un film amaro e genuino, pieno
di ritmo e di pathos, che commuove e fa pensare.
La spietata macchina da presa, nel
carrellare impietosamente su quella disperata umanità, poco o nulla concede
alla fantasia e al buonismo, ma sa comunicare con forza travolgente.
"A
Ce' non guarda' il mare che poi te vengono i pensieri" - dice Vittorio a Cesare, che fissa assorto quell’infinito
azzurro, ma non ci spiega quali.
Forse quel mare, che lo imprigiona nella
sua circoscritta dimensione, gli concede di fantasticare un’illusione, come in
un abbaglio delirante, indotto da sostanze. Forse la voglia di cambiare tutto,
di evadere, di fuggire su una barca con le persone amate, di inseguire la
normalità, di non rassegnarsi al proprio destino.
Ad ognuno comunica qualcosa di importante,
quello che vuole o quello che ci trova, ma nessuno esce dal cinema a mani vuote
o senza sentirsi un po’ in colpa o sotto accusa.
5 ottobre 2015 (Alfredo Laurano)
Nessun commento:
Posta un commento