Nel mondo c’è sempre una guerra. E dove c’è
la guerra la gente muore o fugge. In condizioni disperate, senza una meta,
senza uno scopo, a volte rischiando e trovando la morte nel tentativo di fuga
dalla stessa.
Tutti sappiamo, più o meno, che esistono
campi profughi che accolgono tanti rifugiati. Ma, quasi nessuno li conosce, li ha visti o sa come sono nati e
come sono organizzati.
Un’occasione
per accendere i riflettori su questa gente che soffre, che ha perso tutto,
parenti, casa e cose in luoghi dove tutto è distrutto e abbandonato e dove si continua a morire tra
le bombe, l’ha proposta Mission ieri sera su Raiuno.
Una
serie di critiche e polemiche sul rischio di spettacolarizzazione di un tema
difficile e quasi sconosciuto ai tanti, come appunto quello dei profughi, hanno
preceduto, messo in dubbio e accompagnato la messa in onda del programma, prodotto in collaborazione con l’Unhcr -
l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati - e l’Ong Intersos.
Se lo scopo, come sostiene la Rai, è quello
di portare all’attenzione del grande pubblico l’importanza delle missioni
umanitarie, far riflettere e far conoscere il lavoro degli operatori
internazionali, offrire uno spaccato di terribili realtà, spesso ai margini
dell’informazione, sia televisiva che della carta stampata e, soprattutto,
raccogliere fondi e donazioni, ben venga Mission. In prima serata e su una rete
generalista e un po’ distratta.
Anche
se, per raggiungere questi obiettivi e per contribuire alla campagna di
sensibilizzazione, si rende necessario spedire in quei campi profughi qualche
noto personaggio – che la gente conosce e
in cui si riconosce - per
mostrare, attraverso i loro occhi e i loro passi, la drammatica situazione in
cui vivono i rifugiati. Al Bano, le figlie assai provate, Pannofino e gli altri
hanno il ruolo di far conoscere al pubblico le missioni a cui partecipano, non
da protagonisti, ma come “normali volontari”, senza lucrare sul tema e fare
spettacolo.
E’ con questo spirito, proprio da servizio
pubblico, Mission non può essere visto come un gioco o un reality; non ci sono
prove “paurose e disgustose”, sfide cretine, eliminati o vincitori.
È soltanto un lungo racconto dell’orrore,
dello strazio e della paura vera, attraverso le testimonianze di chi vive all’interno di quei pur provvidenziali campi,
tra sabbia, serpenti e scorpioni.
Anche
se, e questo è un suo limite, non spiega cosa è davvero successo in Mali, in
Congo o in Siria, da imporre a milioni di persone di scappare, per cercare la
salvezza tra le tende dei rifugiati.
Oltre centotrentamila siriani
sopravvivono nel campo di Zaatari in Giordania, nel deserto: volti segnati e
sofferenti che hanno visto in faccia la morte, la fame e le mutilazioni;
immagini dure, drammatiche, che ti fanno vergognare della tua “normalità”,
difficili da digerire. Attenuate a volte da uno sguardo di riconoscenza o dal
mezzo sorriso di un bambino, che prima ha pianto per paura della vaccinazione.
E’
una realtà dolorosa che non può essere ignorata, che tutti dovrebbero conoscere
per dare solidarietà e per apprezzare al meglio la fortuna della pace e di chi
non vive il flagello della guerra.
5 Dicembre 2013
AlfredoLaurano
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