Quella di Prato non è una tragedia del lavoro, è l’ennesima affermazione dell’indifferenza
e
Da decenni, se non da sempre , si conosce
la realtà tessile di Prato. Centinaia di inchieste, articoli di stampa e
servizi dei vari Santoro, Gabanelli, Iacona e Formigli ce l’hanno raccontata e
documentata, nei particolari.
A Prato, c’è la più alta concentrazione di
lavoro nero. In quella comunità vivono
migliaia di persone in condizioni di autentica schiavitù e sfruttamento.
Tutti cinesi, alcuni diventati imprenditori
di quei nuovi schiavi, che lavorano 16 ore al giorno, senza aria, né luce
naturale, in orribili capannoni industriali, dove pure mangiano, tra cucine
improvvisate, sacchi e scarti di lavorazione, e dormono su giacigli in loculi
di cartone. Non escono mai, son come segregati, quasi sepolti vivi.
Si possono immaginare le condizioni
igieniche, il clima e gli odori.
In questi sporchi e disumani capannoni si
produce, a ciclo continuo e non solo a basso costo, merce varia che finisce nei
mercati e nella grande distribuzione. Anche pelletteria e abbigliamento di
grandi marchi e firme prestigiose.
Ma a un cinese che cuce un pantalone vanno
40 centesimi di guadagno.
Ma dove sono i controlli, le verifiche
delle norme e dei flussi di denaro, la prevenzione da parte delle
amministrazioni? In quel Far West cinese non arriva mai una procura, un curioso
magistrato e nemmeno Equitalia?
E,
intanto, per convenienza, la catena di quella produzione si chiude nel mondo
dei consumi. Per risparmiare, si continua a mangiare nei ristoranti cinesi e a
comprare magliette e giocattoli da due soldi, diventando così complici di
quel mercato d’illegalità e di
sfruttamento, che si rinnova e si alimenta.
Crescono
e si diffondono negozi, licenze ed esercizi vari in tutt’Italia, acquistati in
contanti a belle cifre, anche per merito di accordi fra mafie locali ed
orientali, che in queste attività lavano e riciclano ingenti quantità di denaro
sporco.
Le comunità cinesi si insediano, vivono e muoiono secondo i loro usi,
senza tentare la minima integrazione con la realtà territoriale che le ospita,
nella reciproca apatia.
Solo il dramma che si trasforma in cronaca,
scopre un’evidenza da terzo mondo e la vergogna. Ci scandalizza e ci costringe
alla retorica della schiavitù e dello sfruttamento.
Ce ne accorgiamo quando va a fuoco un
capannone e sette schiavi, sette invisibili, senza nome e identità, ci lasciano
la pelle.
Anzi, nemmeno quella, solo carbone!
3 dicembre 2013
AlfredoLaurano
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