Come quasi tutti gli italiani, sono sconvolto dall’uccisione a picconate
di tre poveri innocenti, vittime occasionali della follia di un uomo, in un
mattino uguale agli altri. Anche se, ormai, qualsiasi fatto di sangue, di
orrore, di brutalità non ci stupisce più di tanto. Dalle stragi nelle scuole
americane o di studenti norvegesi, alle sparatorie nelle strade tra la folla;
dalla soppressione di figli, compagne e di famiglie intere, ai neonati buttati
nei rifiuti e a tutta quell’incredibile sequela quotidiana di fatti di inaudita
crudeltà. Per non parlare di guerre, di eccidi, di massacri e di genocidi, assai frequenti o endemici in
varie parti del mondo.
Siamo bombardati in tempo reale da questo tipo di notizie che raccontano
di nefandezze umane, che si inseguono, si accavallano e si scalzano di continuo
nella virtuale scala dei primati delle atrocità, che non si ferma mai, e alla
quale siamo come assuefatti, abituati e a volte indifferenti.
E pensare che fino a poche decine di anni fa, ci turbava la notizia
dell’incidente in autostrada o del tentato furto in qualche abitazione…. e se
ne parlava nei bar e nelle piazze!
Oggi, la mostruosità spesso si trasforma in normalità e come tale siamo
indotti a percepirla.
Forse perché quella sequenza inesauribile, quella classifica in costante
aggiornamento è troppo lunga e piena di record battuti e superati ogni momento.
O forse per eccesso di comunicazione. Più l’informazione è ossessiva e
avvolgente, più diventa ansiogena e crea dipendenza. E più fa crescere
l’alienazione e la solitudine, come contraccolpo a quell’eccesso.
Tentiamo allora di “allontanarci”
psicologicamente dalla ennesima tragedia, per esorcizzarla e per non esserne
contagiati. La rifiutiamo perché non ci appartiene (pensiamo o ci illudiamo) e ci chiudiamo in
difesa - a catenaccio - sempre più soli in noi stessi, per fuggire da una
realtà che ci spaventa e ci deprime.
In molti di noi, il coinvolgimento emotivo è giunto al limite di guardia.
La distanza culturale dal “male” e la paura del caso e dell’ignoto ci fanno
perdere in un profondo senso di impotenza che svuota l’anima e ci fa smarrire
quello della umana identità.
Anche perché ormai sappiamo,
indubitabilmente, che in questo assurdo mondo succede tutto e di più: l’impensabile,
l’impossibile, l’inconcepibile diventano oggettiva realtà. Molto di più di
quanto possiamo solo immaginare, magari sotto l’effetto di droghe, alcol o in allucinazioni
varie.
La tragica vicenda del piccone pone, tuttavia, ancora una volta il
problema del razzismo e del pregiudizio contro la diversità. Quasi a voler
cercare e trovare un senso, una ragione a tutti i costi alla pazzia.
Qualcuno ha commentato così: “il vero
assassino dei tre poveri milanesi non è il ghanese Kabobo, ma il buonismo
imperante della Boldrini e della Kyenge, il terzomondismo peloso della
sinistra, i magistrati vigliacchi che non lo hanno espulso per tempo. Se un
mese fa fosse stato rispedito in Ghana, i tre milanesi sarebbero ancora vivi.”
Ma quando accade un fatto come
questo di Niguarda, cosa c’entra la delinquenza? Cosa c’entra la status di
immigrato? Se fosse stato italiano (e ce ne sono stati tanti, autori di crimini
e follie) avrebbe fatto qualche differenza?
Contro il delirio o la follia di un raptus, contro un tilt del cervello o
il disordine mentale non serve invocare la forca, l’esercito, l’espulsione o i
permessi di soggiorno.
Si dovrebbero mobilitare le coscienze, le strutture sanitarie,
la prevenzione e, soprattutto, “imparare a convivere con l’angosciante
possibilità che il nostro vicino di casa, la persona che dorme nel nostro letto
o nella stanza accanto, il conducente la macchina che proviene dal senso opposto
possano, un brutto giorno, “dar di matto”e piazzarci un piccone in testa, un
coltello nella schiena, schiantarsi volontariamente contro di noi….. o spararci
a caso da una finestra”.
Anche se è un amico, un parente, un convivente o un ex grande amore.
15 maggio 2013 AlfredoLaurano
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