Mauro Corona, scrittore, scultore e alpinista, personaggio
autorevole e sensibile ai temi del rapporto fra l’uomo e la natura, racconta,
in un’intervista a tratti commovente, come ha vissuto la giornata del 9 ottobre
1963 e l’impatto che ha avuto sulla sua vita l’immane tragedia.
Il 9 ottobre del ’63 avevo tredici anni. Il mattino di quel
giorno ero a Longarone. Le scuole medie al tempo erano già obbligatorie.
Lo vivevo come un trauma. Dopo le vacanze estive abbandonavo
la malga (in cui facevo la stagione come bracciante e pastore) per andare a
scuola a Longarone. L’impatto era micidiale perché eravamo bambini selvatici,
liberi e facevamo veramente fatica a stare assieme ad altri ragazzi
sconosciuti, ad abituarci ai compiti da fare e ai libri da studiare, con una
disciplina da seguire assai diversa da quella della malga.
Fino alle 14:00 di quel giorno quindi, ero a Longarone.
Successivamente tornai a Erto. La vita andò avanti regolare fino alla sera.
Ricordo benissimo mia nonna che diceva: “preghiamo perché
viene giù il Tóc”. I segnali e le avvisaglie purtroppo c’erano: terremoti,
scossoni e la spaccatura del monte che si apriva un metro e mezzo al giorno.
Io e i miei fratelli eravamo da soli coi nonni perché mio padre
era a caccia, in giro per i boschi, da una settimana.
Ricordo bene il nonno: un omone alto un metro e novantasei.
Oltre a loro, viveva con noi anche una zia sordomuta.
La notte si andò a dormire. A un certo punto sentimmo un
fortissimo terremoto.
Era il terremoto del Vajont. Un rumore che solo i
sopravvissuti possono ricordare e che nessuno mai potrà imitare. Il rumore di
quella notte fu qualcosa di indescrivibile.
Pensiamo a un camion di ghiaia che si scarica. Già così il
rumore è infernale. Immaginiamoci quel che potrebbe accadere con una frana del
genere. Era come se un miliardo di aerei ci stessero passando sopra la testa
nello stesso istante.
Mancò la luce. Gli ertani si trovarono in strada. “È venuto
giù il Tóc”.
Non sapevamo di essere tutti miracolosamente scampati alla
morte grazie al gobbone del monte Borgà che deviò l’acqua risparmiando il
centro. Purtroppo l’onda si abbatté sulle frazioni popolate di San Martino,
Piénda, Prada, Lirón, Marzana, Savéda, Il Cristo, Fraséing e Le Spesse facendo
una strage.
Ricordo una vecchietta, che abitava a un metro dalla nostra
abitazione, che aveva un figlio guardiano sulla diga. Di lui non è stata
trovata neppure una minima traccia. A volte mi chiedo cosa possa aver visto
quell’uomo. Era un bell’uomo. Si chiamava Felice, lo ricordo benissimo, il
Venerdì Santo faceva la Parte del Cristo.
Gli ertani dicevano: “bisogna andare in alto”. Riparammo in
una casa in cima a un colle, un’abitazione della famiglia dei “Davìde” (Giulio
Davide) e nel frattempo un uomo che si chiamava Rico si recò a San Martino,
un’altra delle frazioni colpite, per controllare la situazione lì, dal momento
che non si vedevano più le luci del borgo.
San Martino non c’era più.
Altri invece raggiunsero Casso per osservare il fondovalle
e cercare di capire cosa era successo a Longarone, ma non videro le luci di
Longarone. Da Casso provenivano urla strazianti.
E allora si capì che era successo qualcosa di grave.
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