Per buona parte degli italiani, la
televisione è ancora “il vecchio focolare”. Non più come quello della scatola
magica e quasi miracolosa che, negli anni cinquanta - sconvolgendo ritmi, usi
ed abitudini - entrava nelle case di tutti e riuniva le famiglie, in un clima
di stupore, di entusiasmo e di una qualche diffidenza.
Ma come strumento
alternativo e rassicurante, come bene privato di rifugio e di conforto.
Oggi, anche se il suo ruolo è profondamente
cambiato e impoverito per effetto delle nuove tecnologie, la televisione
rappresenta ancora una finestra aperta sul mondo: importa e distribuisce informazione, procura
evasione e svago e garantisce una sicura compagnia. All'occorrenza, favorisce
anche il sonno e il buon riposo.
Genera, comunque, interesse e partecipazione,
in un coacervo di ansie, paure, piacere e disimpegno.
Attraverso messaggi, programmi e palinsesti,
orienta scelte d’ogni tipo in ambito
sociale, politico, commerciale, didattico e psicologico e condiziona comportamenti individuali e collettivi, .
Il suo potere persuasivo è arcinoto ed innegabile.
Ma, a dispetto dei telegiornali,
dell’intrattenimento, delle inchieste e dei tanti talk show che trattano
l’attualità, la cronaca, i fatti di sangue, le vicende internazionali e le
chiacchiere renziane sul Jobs act, è la grande fiction che decisamente
conquista il pubblico televisivo.
Ci sarà pure un perché!
Overdose da eccessiva esposizione
informativa? Saturazione del livello di guardia cognitivo? Stress da
iperconnessione non stop e da bombardamento mediatico di offerte e servizi
irrinunciabili?
E’ un momento sicuramente difficile, dove la
crisi economica e del lavoro si sovrappone alle tante forme di guerra nel mondo
e di violenza nelle città, nelle strade e nelle periferie. Dove l’odio e il
razzismo si confrontano e si scontrano con la paura e l’insicurezza. Dove i
diritti sono sconfitti dall’abuso e dal degrado. Dove l’altro è sempre un
nemico che ci minaccia e mette a rischio certezze, garanzie e privilegi.
C’è stanchezza, timore, disamore, disgusto e
intolleranza. Cresce la rabbia e la protesta, l’esasperazione e la voglia di
Far West, che qualcuno alimenta, soffiando sul fuoco della diversità e della
contrapposizione. Si aggrava il malessere sociale, il disagio e la misura della
sopportazione è colma e rischia di esondare.
Aumenta il disinteresse e la disaffezione
alla cosa pubblica, al confronto delle parti.
A votare vanno sempre in meno e vince sempre
l’astensione.
Per tutto questo, forse, e per legittima
difesa, sale e si diffonde una gran voglia di serenità e semplicità, un sentito
bisogno di normalità e di storie a lieto fine, dove i personaggi sono umani,
con tutti i limiti, le contraddizioni e le fragilità di ognuno e di chiunque.
Uomini, donne e bambini che amano, ridono, soffrono, combattono, piangono ed
esprimono sani sentimenti. Che dopo un po’, trascendono dalla propria lodevole
sceneggiatura, perdono i contorni della virtualità narrativa e diventano una
specie di parenti, di vicini di casa o amici di famiglia, a cui ci si affeziona
veramente.
Quando tutto ciò si realizza, con capacità e
qualità, nel rispetto dei fatti, di una fedele analisi storico-temporale e di
una corretta interpretazione filologica si raggiunge l’acme del successo
popolare: la narrazione si fa fluida e si traduce in poetiche sequenze che catturano un’emozione collettiva.
In fondo, coltiviamo e conserviamo sempre un
certo desiderio di favole e magia, unito a un pizzico di sano romanticismo.
Proprio come la prima serie, anche la seconda
stagione di “Questo nostro amore” ha ottenuto, quindi, un larghissimo consenso.
Puntata dopo puntata, il pubblico si è
appassionato alle vicende delle due famiglie (quella dei concubini Anna e
Vittorio e degli immigrati Teresa e Salvatore e relativi figli), che a Torino
vivono il clima e i cambiamenti dell’Italia degli anni ‘60 e ‘70.
Tra censure e
bigottismo, tra amori e tradimenti, tra pregiudizi e difficoltà economiche, tra
conquiste sociali e prese di coscienza, il film ha stupito tutti per
l’eleganza, la semplicità e la naturalezza con cui è stata raccontata l’Italia
di quegli anni. Per l’eccellente interpretazione degli attori, per le scene, le
ambientazioni, le musiche e i costumi.
Per molti, un coreografico tuffo nel passato - forse per non pensare ai problemi del presente - che non punta a sfogliare una leziosa antologia di ricordi, rimpianti, luoghi comuni e valli della nostalgia, magari costellata di compiacimenti estetici o possibili ricami caricaturali e che, soprattutto, evita di cadere nella trappola dell’ovvietà e nella banalità del mito e della leggenda. Pur suscitando momenti di autentica commozione.
Anzi, senza restare relegati in quel periodo
storico, protagonisti, dialoghi e situazioni si rispecchiano nei nostri tempi
stimolando un ulteriore interesse e una motivazione in più, in un pubblico
eterogeneo, composto da adulti e anziani, ma anche da chi quell’epoca lontana
di svolte, cambiamenti, contestazioni e libere scelte, la conosce solo
attraverso le cronache, i libri e la Tv.
Un pregevole lavoro che, con garbo e delicatezza, celebra la
vita, i sogni e la speranza e che cesella, con sensibilità e giusta misura, caratteri, personalità
e sentimenti.
Non poco nell’era dei tagliatori di teste.
(Alfredo Laurano)
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