Chi non ha mai visitato Recanati, Palazzo
Leopardi, le tante stanze della ricca biblioteca e gli altri suggestivi luoghi
leopardiani (il Colle, la piazzetta, la torre), scopre subito, all’inizio del
film “Il giovane favoloso”, la difficile adolescenza del poeta nell’ odiato borgo natio.
Scopre il giovane Giacomo, dalla salute
cagionevole, ma dotato di grande lucidità intellettuale e di sottile ironia,
intento nel debilitante e continuo studio “matto
e disperatissimo”.
Lo vede crescere nel culto della filologia e delle letterature classiche, fra traduzioni e versi che compone nella casa-prigione-biblioteca, dalle cui finestre si strugge di malinconia per Silvia.
Lo vede crescere nel culto della filologia e delle letterature classiche, fra traduzioni e versi che compone nella casa-prigione-biblioteca, dalle cui finestre si strugge di malinconia per Silvia.
Scopre il conflittuale rapporto con il padre, il conte
Monaldo, affettuoso e protettivo, ma severo conservatore, che ama profondamente
il figlio, ma non riesce ad incontrarlo a fondo: Quando provo ad avvicinarmi al tuo cuore ci inciampo dentro”.
Quello giocoso e complice con gli amati
fratelli Carlo e Paolina… “non stancarti
di volermi bene!” e quello inesistente con l’algida e bigotta madre, priva
di qualsiasi slancio e di carezze.
Chi lo ha fatto (visitato), invece, tutto
questo lo ritrova e lo rivive sullo schermo, perché, in qualche modo, l’aveva
assorbito, immaginato o sognato, osservando quei luoghi magici e parlanti.
In entrambi i casi, tuttavia, si ha la
sensazione di riscoprire, più che di provare, un serie di emozioni innate o naturali, latenti o conosciute.
Un po’ come accade nella dottrina platonica della
reminiscenza: la nostra anima, prima di calarsi nel corpo, è vissuta nel mondo
metafisico delle idee di cui conserva un sopito ricordo e, grazie all'esperienza delle cose - che sollecita la memoria - rievoca ciò che ha già visto nell'Iperuranio. Per cui, Platone dirà che conoscere equivale a ricordare.
Nel nostro caso, quindi, è come se quel
leggendario giovane l’avessimo sempre conosciuto, nel suo contraddittorio
“iperuranio recanatese”.
Il Giovane Favoloso è un film biografico,
avvincente, scorrevole e coerente, dove la poesia è protagonista, ma è anche il
resoconto di una continua lotta fra luoghi comuni. Una lotta senza fine che
Leopardi condusse non solo e non tanto contro il suo corpo, ma contro
l'immagine, i preconcetti e gli abusati sillogismi a cui altri lo inchiodavano:
pessimista perché infelice, infelice perché storpio. Dunque solo ed emarginato,
sempre.
A Napoli, si arrabbia molto quando, seduto a
un caffè, sente affermare da un avventore che la sua visione dell’esistenza e
del mondo deriva dalle sofferenze del suo corpo: “non attribuite alle mie malattie ciò che è responsabilità del mio
intelletto”, urla Leopardi,
sbattendo il bastone a terra, per rivendicare, orgogliosamente, la propria autonomia di pensiero.
Ancora oggi, troppo spesso e anche
nelle scuole, gli si appiccica la banale etichetta di pessimista: “pessimismo…ottimismo,
che parole vuote e senza senso!”, ma in verità è un uomo malinconico, cinico e disincantato che
si pone infinite domande sulla vita e sulla cruda realtà della natura. Un uomo
solo, abituato ai silenzi e ad osservare gli altri nei quotidiani affanni.
Martone ne racconta l’avventura umana, la sua
dimensione affettiva, ben oltre quella di simbolo letterario e culturale.
“Io non ho bisogno di
stima, o di gloria o di altre cose simili. Io ho bisogno di amore, di
entusiasmo, di fuoco, di vita...Vivere a caso. Non chiedo altro in fondo”.
E’ il ritratto di un'anima fragile, ma profonda, libertaria e
romantica. Un’anima sensibile, capace di cogliere i cambiamenti della società e
i tormenti dell’individuo, pur prigioniera in un corpo piccolo e deforme, con
tutte le sue paure, le emozioni, le incertezze, le passioni e i turbamenti.
Ma non di questo fu infelice e vittima il
poeta. Lo fu della sua intelligenza e del suo bisogno di conoscenza.
Con immensa tenerezza e senza
indulgere nella pietà, ci regala un Leopardi assalito dal dubbio, come
strumento di conoscenza ("Chi dubita
sa, e sa più che si possa"), ma vero, intenso e determinato nei
sentimenti più profondi, nella sua voglia di amare, di sognare, di vivere,
spesso sopraffatta dalla sofferenza fisica, sempre presente sullo sfondo, come
un fil rouge e come contraltare al suo estro e al suo talento.
Ci narra la sua fanciullezza e la
preziosa amicizia epistolare, che inciderà non poco sulla sua
formazione, con Pietro Giordani, il letterato che subito ne colse la genialità.
Quella
con il fidato Ranieri - che forse fu qualcosa di più e di più intimo - che lo
protegge, lo cura e lo salva da tutto.
I
tre luoghi che più hanno segnato la
sua esperienza umana e artistica: dalla chiusa e stretta Recanati, alla Firenze
intellettuale dei circoli politici e letterari che lo emargineranno e infine,
passando per Roma, alla fatata e gioiosa Napoli, patria di Martone, non a caso,
forse, la parte più vivace e ispirata dal punto di vista figurativo.
Qui, due scene di graffiante
suggestione e qualità: la vera e propria discesa agli inferi di una carnalità
dal sapore felliniano, con il timido e deriso Giacomo che annaspa e si trascina
fra le grotte delle colorite prostitute napoletane e la dura invettiva contro
la Natura maligna, rappresentata da una gigantesca statua di sabbia, con le
fattezze di sua madre, che si sgretola lentamente.
Sono sequenze di forte impatto visivo, che preludono al finale,
dominato dal colera che si diffonde in Napoli e dalla chicca del “sterminator
Vesevo” in eruzione, che sembra “ascoltare” i versi della “Ginestra” - suo
testamento spirituale - che ne attenuano le fiamme ed i lapilli e nel contempo
sublimano le paure e lo stupore del poeta: uomo, natura e poesia si fondono in
un’unica realtà.
Per alcuni, il film appare
didascalico e didattico. O, per meglio dire educativo. Forse lo è,
intenzionalmente, e non credo sia un difetto. Se un’opera o una qualsiasi forma
d’arte, è capace, di riflesso, anche di insegnare qualcosa, affascinando, ben
venga, soprattutto in un momento storico, come l’attuale, di evidente
disimpegno e di forte rischio di deriva culturale.
Vita, poesia e filosofia si fanno
cinema, si traducono in suoni, immagini e suggestioni.
Sono un tutt’uno e si intrecciano
nella storia del “favoloso” recanatese. Non si possono separare, devono essere
fruite e godute come unica, poliedrica e composita realtà, se si vuol
comprendere il mondo leopardiano.
Non per niente, il Leopardi
“umanizzato” di Martone recita l’Infinito, proprio tra le siepi dell’ermo
colle, mentre sforza la vista e la mente per oltrepassare il limite. Cammina
tra le strade di Recanati, sorride alla bella vicina, abbraccia commosso
l’amico Giordani, si entusiasma per una partita di pallone o osserva una
gallina che razzola in su la via, senza che ci sia stata la tempesta.
Reclama il suo diritto al piacere e ai peccati di gola: la bella Fanny e l'adorato gelato.
Reclama il suo diritto al piacere e ai peccati di gola: la bella Fanny e l'adorato gelato.
Va, quindi, oltre la proverbiale,
scontata infelicità, per trovare anche sorrisi e momenti di serenità in un
giovane ribelle, capace di opporsi alla rigida educazione familiare, alle
convenzioni sociali dell’epoca, che tendono a emarginarlo. Un uomo libero di
pensiero, ironico e socialmente spregiudicato che, come dice lo stesso Martone,
va sottratto una volta e per tutte alla visione retorica che lo dipinge
afflitto perché malato.
E’ un Leopardi sognante e furioso,
non più o non solo avvilito e rattristato, ma deciso e politicamente
combattivo, quando afferma: “Il mio
cervello non concepisce masse felici fatte di individui infelici".
Resta un film straordinario,
coinvolgente e commovente, che racconta, anche attraverso le sue debolezze, la
storia della sofferenza umana, non solo fisica, e la grandezza poetica e
filosofica di un genio che, quanto più il suo corpo si ripiegava su se stesso,
tanto più si liberava e giganteggiava.
Che rovescia schemi, cliché, nozionismo
scolastico e luoghi comuni - dimentichiamo quella figura di uomo triste e cupo
che certi docenti ai più hanno consegnato - per restituirci senza ridondanze
enfatiche un pensatore eretico e moderno: bellissima la sequenza “pasoliniana”
dei ragazzi che uccidono le lucciole, con cinismo e noncuranza.
Qualcuno ha scritto che dovrebbe
diventare un film obbligatorio, un passaggio imprescindibile nella formazione
dei giovani. Abbiamo ammazzato Leopardi sui libri, ora è vivo grazie al cinema.
Si spera possa essere adottata dalle scuole per rianimare stanche lezioni e
smorte antologie. Gli studenti ne trarranno beneficio. Gli insegnanti di più.
Magistrale la prova di Elio Germano, ma
anche quelle di tutti personaggi, credibili e aderenti. Accurata la
sceneggiatura, mirabili le scene e le ambientazioni, i costumi, la fotografia e
la musica, anche se la vera colonna sonora sono i suoi versi.
“Ecco, così si filma la poesia!”, ha
riassunto, efficacemente, Bertolucci.
"Nel ‘900 non ne resterà neanche la
gobba", fu, invece, la disgraziata (e oggi comica) previsione del
linguista coetaneo Niccolò Tommaseo, che poco amava il giovane favoloso!
Infatti,
quella gobba non c’è più. In compenso, però, è rimasta un’immensa eredità
culturale, patrimonio dell’umanità, che Martone ci ha superbamente raccontato.
5 novembre 2014 (Alfredo Laurano)
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