Sulle terrazze dell’attico che guarda da
vicino il Colosseo, scorrono le immagini di una società gaudente e decadente.
Sfilano, in trenini, danze e baccanali, pseudointellettuali ostaggi della noia
e della fatica di vivere e una folta galleria di rappresentati, cinici e
delusi, di quella cultura radical-chic che, per moda o convenienza , un certo
ruolo impone.
Nei palazzi e nei salotti che contano, in
una Roma notturna e mondana, questi simboli di opportunismo e di povertà morale
si interrogano sulla propria esistenza, si celebrano in un delirio di
autocompiacimento, confessano manie,
ambizioni e residui di illusioni perdute, in un’insana e contagiosa voglia di
protagonismo.
Egoismo e fragilità alla fiera
dell’esibizionismo.
E’ un po’ il disfacimento dei costumi,
ancora integri nella pur trasgressiva stravaganza dei tempi e delle mode,
raccontati da Fellini nella “Dolce vita” di cinquant’anni fa.
Di contro e sullo sfondo, la grande
bellezza della città magica si offre, splendente e seducente, al godimento
estetico dei turisti estasiati, turbati dalla sindrome di Stendhal.
Nelle contraddizioni crepuscolari, nei
silenzi della notte lunga e senza tempo, o
nei solari contorni offerti
dall’altra Roma, prendono corpo una serie di aberranti personaggi, esagerati ma
non troppo, che sono assai lontani dal viver quotidiano e aumentano il
contrasto con la normalità della gente che lavora e sputa sangue per campare.
Sono i forzati della fama e del successo, del potere e del mito dell’eterna giovinezza.
Non spiccano, stranamente, i politici di
ruolo, pur da sempre in prima fila. Forse perché troppo scontato o per non
creare scelte e facili bersagli .
L’amico, fallito scrittore di teatro, la
direttrice nana, il “padrepio” del botulino a settecento euro, scontati, a
punturina, la ragazza nuda che prende a capocciate i muri, la matura e
misteriosa spogliarellista, la bambina artista suo malgrado, l’intellettuale
che fa la “ricca” di professione, il cardinale patito di cucina, la santa che
dice che la povertà si vive, non si racconta….
Si dipinge così e si compone un affresco di
stampo felliniano, grottesco e surreale. Molto descritto e poco raccontato da
inquadrature impertinenti e da oscillanti e spericolati movimenti di macchina
che, insieme alla fotografia e alla travolgente musica ossessiva, inchiodano
l’attenzione della sala.
La Grande Bellezza di Sorrentino è un film
sul vuoto e sul nulla, dove tutto è trucco e inganno, come dice la scena della
giraffa, che si sottrae alla bellezza vera.
E’ una metafora dell’indecenza, della
corruzione e della volgarità di un mondo frivolo e inutile che non ha speranze.
Fenicotteri che spiccano il volo, a parte.
Anche
Jep, il protagonista (un magnifico Toni Servillo), che ha dissipato la sua vita
in mezzo a questa gente, fra chiacchiere sul niente e vuoto esistenziale e galleggiando
a vista “per essere il re della mondanità”, cerca un diverso senso e una
risposta alla solitudine dell’anima, tra
la magia dei ricordi giovanili e i voli della fantasia. Anche perchè "a 65
anni non hai più tempo per ciò che non ti va di fare".
Tenta di respirare un’aria nuova, pulita e
fresca e, soprattutto, di cogliere appunto
quella grande bellezza - presente e
muta, anche tra le quinte della sua vita, ma tuttavia sempre ignorata - e di farsi da essa abbracciare e
coccolare.
31 maggio 2013
(Alfredo Laurano)
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