Le fettuccine e le crostate, una volta, si
facevano solo, o soprattutto, in casa. E ciò equivaleva a dire, come ancor oggi si pensa e si dice, che
erano buone e genuine. Anch’io, modestia a parte, "lo nacqui".Come quelle fettuccine sono
nato in casa, con la levatrice e l’acqua calda, al sette di via Plinio, a Roma,
quasi insieme alla Repubblica. E, con una veniale puntina di fierezza, mi piace
pensarmi ancor così: casareccio e schietto, non contraffatto e non sofisticato.
Anche perché sono figlio di quell’epoca dove,
per effetto della guerra e delle sofferenze appena passate, tutto era più
facile e naturale.
Ci si accontentava di poco e di quel poco, che sembrava
tanto, si era felici e soddisfatti; le persone erano più vere, più aperte e più
sincere.
Non si pretendeva l’impossibile, ma neanche
il superfluo: Il vivo ricordo della fame, della paura e dell’orrore rendeva
tutti più umani e solidali.
Al piano rialzato di quel palazzo – di
fronte all’attuale Pizzeria S. Marco – mia madre (me lo raccontava sempre) mi teneva alla finestra a far la pappa sul
seggiolone e a guardare il cortiletto e la gallina di “nonno Francesco”, il
portiere dello stabile, che ogni mattina mi mandava l’uovo fresco, in un
piccolo cestino tirato su con la cordicella….
Mi diceva pure, mia madre, che ero molto
coccolato dagli altri inquilini, che mi chiamavano, mi sorridevano e si complimentavano con lei.
Ne andava fiera e si inorgogliva nella sua semplicità.
Mio
padre, che il sabato sera, a volte, si concedeva il vizietto del biliardo nella
sala di piazza Cola di Rienzo, la domenica mattina mi portava nella stessa
piazza, a pochi passi da casa, a vedere e sentire la banda che suonava, sfilando per la via.
Negli anni successivi, cambiammo casa, pur
restando in zona, nei pressi di Mazzini. Ma quel primo, modesto appartamento,
quel quartiere, quella gente amica e quelle vie rimasero nel cuore mio e della
mia famiglia. Ci tornavamo sempre. Per una passeggiata, per un gelato, per un
supplì di Franchi o di Ottaviani.
Ma
col tempo tutto cambiò. Anche la banda smise di suonare.
Dopo sposato, tornai a vivere in quel
rione, a sei-settecento metri da via Plinio.
Negli
anni sessanta e primi settanta, le strade intorno erano ancora belle, “sobrie”,
come i negozi e le boutique di moda. Via Cola di Rienzo contendeva a via del
Corso il ruolo di strada più importante ed elegante, dove passeggiare, fare
acquisti, sedersi ai tavolini degli invitanti bar.
Il
bellissimo negozio di Zingone, con le sue armoniche rampe di scale avvolgenti e
la fontana in mezzo, rivaleggiava, per l’ambiente raffinato, con la Rinascente
di Piazza Colonna. Quei magnifici locali di Zingone, poi, passarono alla Standa
che, oltre ad offrire articoli di minor pregio, pensò bene di eliminare
immediatamente la fontana per facilitare l’accesso ai piani superiori con una
orribile scala mobile: l’era dei supermercati incombeva impaziente.
Meno
curato negli spazi, ma pur sempre inserito in un edificio d’epoca vi era, e vi
è tuttora, lungo la via, anche un mercato coperto, con altro ingresso sulla
parallela Piazza dell’Unità, dove si poteva fare la spesa giornaliera.
Fiore all'occhiello della mondanità e del
buon gusto fu senza dubbio il Caffè Latour, situato al 153 di quella via.
Di proprietà dei fratelli Latour, originari dell'Alsazia-Lorena e discendenti
di un generale di Napoleone, il locale aprì nel 1924. Era rinomato come sala da
the, per l'alta pasticceria, per i suoi finissimi cioccolatini e per l’arredo
estremamente ricercato dei suoi interni - raffinati specchi, soffitti a
cassettoni, bancone in pregiato mogano - che mantenne immutati fino alla
chiusura, che avvenne nel 1972.
Rimase
aperto ancora per molti anni il Bar Pignotti-Pellacchia, un po’ più
avanti, assai famoso per l’eccellente panna e per i gelati, ma meno accurato
nello stile. Oggi, c’è una gioielleria.
L’odore
di confetti che coglieva appena imboccata la traversa di via Properzio
proveniva da un seminterrato dove operava una delle più antiche e rinomate
fabbriche dolciarie di Roma. Attraverso le grate imbiancate di zucchero, si
intravedevano le grandi coppe di rame in cui si rigiravano le mandorle per
ammantarsi del loro rivestimento candido e dolce. Nel negozio, che si apriva
sempre su via Cola di Rienzo, intere generazioni di romani hanno comprato
confetti e bomboniere per matrimoni, battesimi e comunioni. Ora, quel famoso
Loreti e il laboratorio nato nel quartiere non esistono più. C’è il
solito, inflazionato abbigliamento.
Quella strada era anche la via dei cinema:
l’Eden, ancora esistente, il Cola di Rienzo, diventato sala Bingo, l’antico
Palestrina e lo Smeraldo, trasformati in esercizi commerciali e il famoso
Teatro Principe, all’incrocio con via Properzio dove, per un certo periodo, si
fece anche l’avanspettacolo con i comici, l’orchestrina e le succinte ballerine
casarecce.
In precedenza, con un altro nome - forse
Teatro Umberto - aveva avuto in cartellone anche la rivista classica di
illustri artisti, come Totò, Rascel, Macario e Delia Scala. Ho un pallido
ricordo di “Attanasio, cavallo vanesio!”
In zona, vi erano tante altre sale perché
il cinema, ai tempi, era passione e divertimento per molta gente, soprattutto
nel fine settimana.
A piazza Cavour, l’elegante Adriano, con
loggette a balconcino, che nel giugno del 1965 ospitò i Beatles in due storici
concerti, è oggi multisala. L’attiguo Ariston, incorporato, l’Ottaviano, che
divenne Upim, poi supermercato e oggi banca, il Giulio Cesare e il Doria
trasformati in multisala. Il piccolo d’essai
Scipioni, diventato Azzurro con Silvano Agosti.
Oltre
l’asse che, partendo dal Palazzaccio che domina la grande Piazza Cavour -
completamente trasformata dopo anni di interminabili lavori, con nuovi
giardini, aree pedonali e parcheggi interrati - porta, in un lungo rettilineo,
a Delle Vittorie, c’era l’omonimo cinema (ci vidi con mio padre “Gli ammutinati
del Bounty e Il Giorno più lungo-Lo sbarco in Normandia”, nel 1962) che fu acquistato proprio in quegli
anni dalla Rai per diventare il teatro del varietà televisivo: Studio Uno,
Rischiatutto, Canzonissima, Fantastico… Un po’ più avanti, c’era il cinema
Mazzini.
Torniamo in Prati.
Tra gli esercizi storici, non si può
dimenticare il gran bar-sala biliardo sulla piazza che ricordavo prima, cara al
giovane mio padre, il bagno diurno di Cobianchi, la vicina libreria Gremese, la
piccola, ma squisita pasticceria Calligari, la super-drogheria Castroni, sempre
più internazionale e, all’angolo della rosticceria Franchi, la mitica birreria
Peroni dove si consumavano le fumanti prelibatezze appena acquistate nei
cartocci.
Alle pareti decorate, fra i disegni e le cornici si leggeva: “chi beve birra, campa cent’anni” e sui semplici tavolini in legno arrivava infatti birra e gazzosa, a battezzare supllì, pizzette e calzoni che scottavano il palato…. Una autentica, indimenticabile goduria! Che anche adesso sento in bocca!
Era un percorso obbligato e conseguente a cui per anni e anni non mi son sottratto - prima, da ragazzo, con i miei genitori, poi con le mie figlie - che ancor oggi assai rimpiango e ricordo con infinita nostalgia.
Tutto cambia e tutto si trasforma: il
corpo, il pensiero, le cose e i sentimenti. E la percezione di ciò che ci è
intorno.
Quelle tracce di storia, quelle orme di
passato, pur forti e vibranti, lasciano spazio senza alcun entusiasmo a un
mondo mutato. All’astio e al livore. A un diverso quartiere, sommerso dal
traffico e senza calore. Che non ha più profumi, né fatate atmosfere.
Solo
tanto rumore, distacco e freddezza. Chiunque e ogni cosa è avulsa da ogni
contesto.
Resta però una propria, sfarzosa ricchezza:
la magia dei ricordi di una vita serena e tranquilla, fra giochi ed affetti,
tra amicizie e passioni, fra strade pulite e alberate, tra edifici umbertini,
fontane e deliziosi villini.
Forse
era quella e in quegli anni la mia “Dolce Vita”.
4 giugno 2013 AlfredoLaurano
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