Mangiamo tre volte al
giorno, più eventuali spuntini, merendine e aperitivi, e spendiamo almeno un
quinto o un quarto di ciò che guadagnamo per comprare cibo. Almeno in buona
parte del mondo: quella più ricca e occidentale che non mangia proprio per
vivere, ma spesso vive per mangiare o ingurgitare.
E mentre qui inseguiamo
un equilibrio assai precario tra stomaco
e cervello, tra diete a punti, a zona, salutiste, vegane o a sole proteine, tra
un’abbuffata ed un digiuno in penitenza, tra intolleranze varie ed esercizio
fisico, tra sensi di colpa per le troppe calorie, massaggi dimagranti e il magico
bisturi del chirurgo plastico, in altre parti del mondo c’è chi ancora fa dieci
chilometri a piedi per prendere un po’d'acqua.
Il paradosso è che
sulla terra un miliardo di persone
soffre la fame e la sete e due miliardi
mangiano troppo e sono obesi o in
sovrappeso. E sprecano in proporzione.
Ma, come anoressia e
bulimia sono manifestazioni patologiche,
apparentemente opposte, dello stesso disturbo psichico-emotivo, così mancanza e
sovrabbondanza di alimentazione sono due diversi aspetti dello stesso fenomeno:
la malnutrizione.
L’industria
multinazionale del cibo, che ha un potere di mercato enorme e concentrato in
poche mani, domina i sistemi alimentari mondiali ed ha come obiettivo non certo
quello di fornire una adeguata e sana nutrizione a tutti, ma di massimizzare i
profitti, dove è più facile realizzarli. Accentuando così, il divario fra miseria e
prosperità, senza scrupoli o remore morali.
E qui, nel florido
occidente, ci fa mangiare troppo e troppo male, anche se a basso prezzo e assai
velocemente, imponendo mode, tendenze e stili di vita.
E quindi vai col sushi
e sashimi, la cucina cinese o vietnamita, il pesce crudo, le ostriche e
champagne, le carni di struzzo, di cervo e di cammello, l’happy hour con gli
stuzzichini, i vini abusati e inflazionati come Falanghina e Nero d’Avola.
Anni fa “esistevano”
solo il Cartizze e il Mateus rosé, le
pennette alla Vodka, le linguine al salmone e le crepes al Grand Marnier…..
Tre quarti delle
vendite di cibo nel mondo, controllate da qualche decina di grandi aziende che
decidono per noi cosa, come e quando consumare, è rappresentato da alimenti che
hanno subito processi di lavorazione industriale e che, quindi, sono troppo
ricchi di sale, di grassi e di zuccheri e, molto spesso, di additivi,
addensanti, conservanti e coloranti. Come le bevande alcoliche e le bibite
gasate favoriscono obesità, anche infantile, diabete, ipertensione e malattie
cardiovascolari.
Il mercato globale dei
paesi sviluppati è ormai saturo, ma nel mondo c’è ancora spazio per conquistare
nuove fette di consumatori. La ricca industria alimentare ora cresce e si
espande nei paesi poveri del mondo, dove forse non si patirà più per la
denutrizione e l’indigenza o non si morirà d’inedia, ma ci si ammalerà col
tempo di patologie finora sconosciute. Una nuova forma di auspicato e diffuso benessere,
con tanti effetti collaterali, troppe controindicazioni e scarse difese
immunitarie.
Otre a tutto questo,
non va dimenticato che dove e quando
arriva l’industria del mangiare pronto o trasformato si comincia a perdere la
cultura e l’identità delle tavole regionali e nazionali. Il rito usuale del
pasto quotidiano, momento centrale della vita familiare, viene sempre più
sostituito dal fast food, dal surgelato, dalla minestra liofilizzata in busta,
dal piatto pronto al microonde o dallo spuntino consumato in piedi al bar.
Le tante tradizioni culinarie,
locali, secolari e sempre tramandate, rischiano quindi l’estinzione, o quanto
meno, un forte ridimensionamento. Come pure vengono via via emarginati i
piccoli produttori e i coltivatori locali, tagliati fuori dal mercato. L’alternativa
del biologico e del biodinamico resta così di nicchia e costa cara.
Ma con qualche soldo in
tasca e un po’ di gusto da gourmet si può tentare una certa resistenza e
provare ad appagarsi ricercando l’eccellenza.
Dal 20 giugno ha aperto
anche a Roma, nell’ex Air Terminal Ostiense, il tempio del gusto e dell’enogastronomia:
Eataly. Una struttura di quattro piani e 17.000 metri quadrati, su cui sono
allestiti 23 ristoranti o angoli di ristoro con produzione a vista, 14.000
punti vendita, aree didattiche e librerie specializzate.
Tutto per promuovere e
far conoscere il cibo, il vino e i
prodotti made in Italy come la mozzarella di bufala, la piadina, il culatello e
i salumi di cinta senese, i formaggi regionali, la pizza, i fritti romaneschi,
le paste di Gragnano, le birre artigianali, le confetture, i dolci della
tradizione e le cioccolate piemontesi. E poi, l’area frutta e verdura, l’area
pane e focacceria, l’area carni di alta qualità de “La Granda”e la pescheria
dai prezzi da gioielleria: scampi a 70
euro al chilo, gamberi, solo a 58!
Quindi, una soluzione
c’è, ma non a tutti è data.
Visto che il cibo è la
nostra prima medicina, si può mangiar bene, scegliere il buono e il meglio per
il palato e per la salute.
La modica quantità,
l’attenzione alla qualità, l’occhio vigile all’etichetta ci aiutano nella
giusta selezione e ci guidano tra le invitanti offerte ed opzioni, a condizione
che, come sempre accade nel mondo e nella Storia, si abbia il privilegio di
poter spendere e mangiare un modesto bucatino “cacio e pepe” a 20 euro, al
ristorante Italia, nel gran bazar della bontà e del massimo livello.
Dimmi cosa e come mangi
e ti dirò chi o quanto sei!
5 settembre 2012 Alfredolaurano
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