venerdì 7 settembre 2012

TANTO VALE MANGIAR BENE!


Mangiamo tre volte al giorno, più eventuali spuntini, merendine e aperitivi, e spendiamo almeno un quinto o un quarto di ciò che guadagnamo per comprare cibo. Almeno in buona parte del mondo: quella più ricca e occidentale che non mangia proprio per vivere, ma spesso vive per mangiare o ingurgitare.
E mentre qui inseguiamo un equilibrio assai precario  tra stomaco e cervello, tra diete a punti, a zona, salutiste, vegane o a sole proteine, tra un’abbuffata ed un digiuno in penitenza, tra intolleranze varie ed esercizio fisico, tra sensi di colpa per le troppe calorie, massaggi dimagranti e il magico bisturi del chirurgo plastico, in altre parti del mondo c’è chi ancora fa dieci chilometri a piedi per prendere un po’d'acqua.
Il paradosso è che sulla terra un miliardo  di persone soffre la fame e  la sete e due miliardi mangiano troppo e  sono obesi o in sovrappeso. E sprecano in proporzione.

Ma, come anoressia e bulimia sono  manifestazioni patologiche, apparentemente opposte, dello stesso disturbo psichico-emotivo, così mancanza e sovrabbondanza di alimentazione sono due diversi aspetti dello stesso fenomeno: la malnutrizione.
L’industria multinazionale del cibo, che ha un potere di mercato enorme e concentrato in poche mani, domina i sistemi alimentari mondiali ed ha come obiettivo non certo quello di fornire una adeguata e sana nutrizione a tutti, ma di massimizzare i profitti, dove è più facile realizzarli.  Accentuando così, il divario fra miseria e prosperità, senza scrupoli o remore morali.

E qui, nel florido occidente, ci fa mangiare troppo e troppo male, anche se a basso prezzo e assai velocemente, imponendo mode, tendenze e stili di vita.
E quindi vai col sushi e sashimi, la cucina cinese o vietnamita, il pesce crudo, le ostriche e champagne, le carni di struzzo, di cervo e di cammello, l’happy hour con gli stuzzichini, i vini abusati e inflazionati come Falanghina e Nero d’Avola.  
Anni fa “esistevano” solo il Cartizze e il Mateus rosé,  le pennette alla Vodka, le linguine al salmone e le crepes al Grand Marnier…..
Tre quarti delle vendite di cibo nel mondo, controllate da qualche decina di grandi aziende che decidono per noi cosa, come e quando consumare, è rappresentato da alimenti che hanno subito processi di lavorazione industriale e che, quindi, sono troppo ricchi di sale, di grassi e di zuccheri e, molto spesso, di additivi, addensanti, conservanti e coloranti. Come le bevande alcoliche e le bibite gasate favoriscono obesità, anche infantile, diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari.

Il mercato globale dei paesi sviluppati è ormai saturo, ma nel mondo c’è ancora spazio per conquistare nuove fette di consumatori. La ricca industria alimentare ora cresce e si espande nei paesi poveri del mondo, dove forse non si patirà più per la denutrizione e l’indigenza o non si morirà d’inedia, ma ci si ammalerà col tempo di patologie finora sconosciute. Una nuova forma di auspicato e diffuso benessere, con tanti effetti collaterali, troppe controindicazioni e scarse difese immunitarie.

Otre a tutto questo, non  va dimenticato che dove e quando arriva l’industria del mangiare pronto o trasformato si comincia a perdere la cultura e l’identità delle tavole regionali e nazionali. Il rito usuale del pasto quotidiano, momento centrale della vita familiare, viene sempre più sostituito dal fast food, dal surgelato, dalla minestra liofilizzata in busta, dal piatto pronto al microonde o dallo spuntino consumato in piedi al bar.
Le tante tradizioni culinarie, locali, secolari e sempre tramandate, rischiano quindi l’estinzione, o quanto meno, un forte ridimensionamento. Come pure vengono via via emarginati i piccoli produttori e i coltivatori locali, tagliati fuori dal mercato. L’alternativa del biologico e del biodinamico resta così di nicchia e costa cara.

Ma con qualche soldo in tasca e un po’ di gusto da gourmet si può tentare una certa resistenza e provare ad appagarsi ricercando l’eccellenza.

Dal 20 giugno ha aperto anche a Roma, nell’ex Air Terminal Ostiense,  il tempio del gusto e dell’enogastronomia: Eataly. Una struttura di quattro piani e 17.000 metri quadrati, su cui sono allestiti 23 ristoranti o angoli di ristoro con produzione a vista, 14.000 punti vendita, aree didattiche e librerie specializzate.
Tutto per promuovere e far conoscere il cibo,  il vino e i prodotti made in Italy come la mozzarella di bufala, la piadina, il culatello e i salumi di cinta senese, i formaggi regionali, la pizza, i fritti romaneschi, le paste di Gragnano, le birre artigianali, le confetture, i dolci della tradizione e le cioccolate piemontesi. E poi, l’area frutta e verdura, l’area pane e focacceria, l’area carni di alta qualità de “La Granda”e la pescheria dai prezzi da gioielleria: scampi  a 70 euro al chilo, gamberi, solo a 58!

Quindi, una soluzione c’è, ma non a tutti è data.
Visto che il cibo è la nostra prima medicina, si può mangiar bene, scegliere il buono e il meglio per il palato e per la salute.
La modica quantità, l’attenzione alla qualità, l’occhio vigile all’etichetta ci aiutano nella giusta selezione e ci guidano tra le invitanti offerte ed opzioni, a condizione che, come sempre accade nel mondo e nella Storia, si abbia il privilegio di poter spendere e mangiare un modesto bucatino “cacio e pepe” a 20 euro, al ristorante Italia, nel gran bazar della bontà e del massimo livello.
Dimmi cosa e come mangi e ti dirò chi o quanto sei!

5 settembre 2012                                                  Alfredolaurano  

                                                                                                                               







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