Erano anni che non tornavo al
Pincio. Almeno una decina. Ieri, domenica, di buon mattino, ci sono andato in
macchina, dopo un lungo giro dal Muro Torto e Trinità dei Monti, attraverso i
varchi “non attivi” nei festivi. Altrimenti, non ci si può arrivare, se non a
piedi, salendo le rampe da Piazza del Popolo.
Era molto freddo, c’era il sole, il
cielo azzurro e poca gente: qualcuno con il cane, coppie che si scaldavano col
footing, un gruppetto di giovani straniere, un paio di venditori di panini e
souvenir che allestivano la merce sui banchetti e sul furgone. La luce dorata di quell’ora presta fasciava fiori,
rami, foglie e l’erba in tutto il parco. C’era silenzio, si percepiva
l’argentino e delicato canto degli uccelli e, lontano, il tenue chioccolio
dell’acqua delle fontane. Qualche cornacchia saltellava tranquilla sulla strada.
Una singolare mostra di monumentali
sculture, in resina e altri materiali mescolati, del messicano Javier Marin
ornava il piazzale antistante la terrazza: imponenti figure di cavalieri a
gruppi di tre e in tre colori si ergevano su altissimi piedistalli, mentre
enormi volti umani, rovesciati e capovolti, giacevano per terra con colorazioni
e forme molto originali. Tutto esaltato e sfumato da quella stessa luce del
mattino.
Una esposizione a cielo aperto, un intreccio tra arte e tradizione
antica, armonizzata ed espressa in chiave contemporanea, in un contesto che non
lascia indifferenti. Ho letto, poi, che altre opere dell’artista hanno come
scenario altri luoghi capitolini emblematici quali il Museo Macro di Testaccio
e la Piazza di S. Lorenzo in Lucina.
Una volta, la domenica mattina, in
questi giardini del Pincio si esibivano gruppi orchestrali e bande musicali su
palchetti o in ornamentali gazebo in stile simil-vittoriano, che garantivano
l’acustica e il riparo. Le note si diffondevano gioiose in un’atmosfera
di serenità e intorno si coglieva una festosa partecipazione popolare. Ci
portavo spesso le mie bimbe che ascoltavano rapite quelle toccanti melodie, le marce ed i crescendo, ma poi
cercavano la giostrina coi cavalli e le macchinine, sul piazzale. Come mio
padre portava me, bambino.
Era comune e assai piacevole udire quella
musica, sempre più lontana, mentre si passeggiava tra i vialetti, con il gelato
o il maritozzo e mano nella mano.
Dopo si tornava a casa e a pranzo
si ascoltava alla radio “Campo de’Fiori”, con la sua indimenticabile sigla di
Respighi, e “…Io so’ Orazio Pennacchioni
e so’ contento, so’ tifoso della Roma e me ne vanto..”, con Isa Di Marzio e
Giorgio Onorato. A seguire, “Tutto il calcio minuto per minuto.
Era il rito semplice della “domenica
è sempre domenica”, accompagnata dalle pastarelle!
Tra i busti marmorei di artisti,
patrioti e scienziati, la fontana del
Mosè, la mitica Casina Valadier, l’obelisco Aureliano e l’orologio ad acqua ho
ritrovato ieri, quasi uguale e incontaminato, un luogo assai prezioso della mia
infanzia e della mia giovinezza. Ho
riscoperto la magia travolgente dei ricordi, come figlio e come padre,
sopraffatto dalla nostalgia e dall’ emozione che si è rinnovata, profonda,
affacciato alla terrazza: uno dei
panorami più belli del mondo!
Ammirare dall’alto Piazza del
Popolo e la Roma rinascimentale e vaticana è uno spettacolo che toglie
inevitabilmente il fiato e che commuove.
E al tramonto, col sole che bacia il Cupolone, è ancor più suggestivo
quell’incanto che aumenta il turbamento.
10 febbraio 2013
AlfredoLaurano
Nessun commento:
Posta un commento